Day: aprile 5, 2011

Il mistero della cappella della nobile famiglia Gemelli nella chiesa di sant’Elia

Il culto verso la Madonna del Bosco ebbe a Messina, grande diffusione già agli inizi del 1600.
Quindi, nel 1615 fu costituita una confraternita per la quale fu costruito il primo nucleo monumentale, dal quale in seguito fu innalzata la rispettiva chiesa. Del monumento non rimane che il ricordo, nel toponome inserito nella via che un tempo indicava il sito, dove fino alla seconda guerra mondiale, erano sopravvissute le fabbriche principali e soprattutto, l’altare maggiore. Su iniziativa di monsignor Giorgio Previti, il cappellano di sant’Elia, coadiuvato da un devoto del plesso del Paraporto, fu recuperato l’altare principale e il medesimo paliotto della chiesa della Madonna del Bosco, ricostituendolo, presso la prima cappella di destra dell’aula elianica.  Sempre per volontà dell’attivo cappellano, sfruttando l’amicizia che lo legava al prelato Amoroso, chiesero al nipote di realizzare una tela, intitolata all’icona della Madonna del Bosco. Proprio in quel momento, si stava materializzando un misterioso fenomeno. La scelta casuale, che ebbe determinato la sistemazione presso quella cappella in sant’Elia, ricomponeva un significativo evento, verificatosi trecento anni prima.  Quasi per intercessione divina, la dove fu ricomposto l’altare maggiore della chiesa perduta, era nata nella seconda metà della terza decade del 700, per volontà di una illustre famiglia messinese, una delle quattro cappelle incassate ancora presenti nella chiesa di sant’Elia. I fautori che  ebbero promosso  gli arredi di siffatta cappella, ricadevano nei rampolli della nobile famiglia Gemelli: più precisamente nel ramo di Guglielmo Gemelli. Colui il quale, negli stessi anni, posto a capo della delegazione dei pellegrini messinesi,  arricchì il santuario della Madonna di Polsi con un’acquasantiera, datata  1750. Le prime contaminazioni religiose, fra comunità siciliane e calabresi, si rapportano al ritrovamento della sacra croce, un  cimelio medievale conservato nel santuario reggino. Successivamente, dopo il XII secolo, il culto verso la sacra immagine si propaga fino alla costa messinese e con maggiore  partecipazione, presso il villaggio di Ganzirri. Dal sito dei laghi, ripetutamente nei  secoli, si costituiva un pellegrinaggio  spontaneo che conduceva i suoi  devoti, dall’attraversamento  dello  stretto fin su le pendici dell’Aspromonte. Nella mastra nobile di Messina del 1798- 1807, troviamo annotati un Guglielmo Gemelli del fu Domenico, e un Guglielmo Gemelli e Mantica del fu Carlo. Da altre carte, si può ragionare sul conto del primo Guglielmo del fu Domenico, ritrovato come sostenitore delle monache agostiniane di sant’Elia, dove possedeva la sù citata, prima  cappella di destra dell’attuale chiesa. Sempre lo stesso personaggio, lo ritroviamo nelle veci del devoto che a sue spesse, fece eseguire una splendida acquasantiera ancora esistente, molto simile a quella sistemata nella chiesa di sant’Elia. Infatti, nei cimieri e nel blasone ecclesiastico ritrovato nella cappella elianica, compaiono gli attributi del lignaggio nobile del Gemelli. Appare evidente che i simboli riconducibili al rango e alla nobiltà della famiglia, prendono piede presso i capitelli corinzi che funzionano come una sorta di porta insegne, i valori della nobiltà: in esse, si notano due elmi sopra i rispettivi panneggi a stucco, ritraenti, nel ruolo di gentiluomini o antichi cavalieri due discendenti del casato. In entrambe le visiere troviamo 5  griglie ( tre apparenti e due no), ma appartenenti a due discendenze diverse. Nell’elmo posto sopra il capitello di destra, compare un Gemelli per discendenza diretta di sangue: la visiera è espressa di profilo rivolta sulla  sua destra con nasale rialzato e ventaglio abbassato. Viceversa, l’altra pezza, composta sopra il capitello della colonna di sinistra, è espressa di profilo in tre quarti, sempre rivolta sulla sua destra per evidenziare lo stato diretto delle discendenza di sangue con la rispettiva presenza sul lato destro; emancipando la funzione di nipote. Arma: d’azzurro a due gemelli  affrontati  sopra una pianura di verde,  addestrata da un pastorale di nero, piantato sulla pianura e tre stelle d’argento, piantate sul capo.

Alessandro Fumia

Insegne civili e nobiliari della città di Messina

Una rapida ricognizione delle fonti storiche, stabilisce nuovi elementi per gettare uno sguardo intrigante, sui titoli  e sugli onori conservati dalla città di Messina. La ricerca  dei titoli della nobilis civitas messanae, apre inquietanti scenari per un messinese; adesso, costretto a portare a galla, verità inedite, legate a falsi titoli e a pretestuosi blasoni. Uno per tutti, basti pensare al fantomatico stemma di Arcadio: oggi presente nei labari della città di Messina. Esposto durante portacolori ricorrenze, oppure, nelle manifestazioni solenni, dove viene presentato, come uno dei maggiori titoli del passato. Hai me, lo stemma della croce d’oro in campo rosso, resta uno dei tanti tranelli, in cui sono caduti molti ricercatori. La prima fonte che tratta della sua rispettiva presenza nei rogiti, legati alla Città dello Stretto, risale ai primi decenni del trecento. Le vicende storiche che furono ricondotte su questo blasone, raccontano di uno straordinario avvenimento. Siamo al tempo in cui, regnava sui territori dell’Impero Romano d’Oriente Arcadio. Si raccontava che imperatore, costretto dalle soverchianti forze poste in campo, dai barbari e da genti Bulgare asserragliato in quel di Salonicco, era  prossimo alla rotta. Quando, dopo che, in tanti non  accolsero il grido di aiuto del sovrano, giunsero dal mare galee Messinesi vincendo, in un pronto e portentoso intervento, il nemico sull’acqua e poi sulla terra ferma, nell’anno del Signore 407. Per tale motivo, Arcadio elargì meriti e doni incommensurabili. Dotando fra le altre cose, nelle insegne cittadine, la croce d’oro in campo rosso. Da quell’istante, Messina non esitò a mostrare al mondo, un siffatto blasone, legato dal motto: Gran Mirci a Messina. Posso capire, l’utilizzo di questi riferimenti, in epoche in cui, Messina rivaleggiava con le altre grandi di Sicilia; ma che addirittura, ancora, si proponga un falso storico come questo, facendolo passare come moneta sonante, mi pare un azzardo. Perché, cosi come segnalano le fonti storiche, accreditate, ci dimostrano come andarono realmente i fatti. Innanzitutto, lo scontro segnalato dalle fonti Messinesi nel 407 non sta ne in cielo ne in terra. In quell’anno, Arcadio, fu raggiunto presso Costantinopoli, dagli assalti degli Isaurici che dalla loro regione, posta a mezzogiorno del Medio Oriente, calarono sulla capitale, devastando il suo territorio fra il 406 e l’anno appresso. Mentre in realtà, lo scontro bellico che riguardava un assedio a Salonicco, avvenne realmente fra il 395 e il 396; quando a scontrarsi furono Alarico che era giunto nel settembre del 395 fin sotto le mura di Bisanzio assediando Arcadio. E poi, comprato con l’oro degli imperatori e corrotto da Rufino; generale in capo delle truppe di Arcadio, se ne ritornerà nell’Illiria cioè, l’antica Messenia, devastando in lungo e in largo il Peloponneso e la Tessaglia. Dove fu sorpreso e alle spalle, proprio a Salonicco da Stilicone: comandante militare  supremo, dell’Impero Romano d’Occidente. A chi fare affidamento? Lo storico, segue le fonti e non la tradizione. Per cui, a parlare per me, sono: la cronaca di Eunapio scritta nel 410 quindi, rispetto ai presunti avvenimenti del 407 in favore di Messina, sono fatti molto attendibili. E la istoria raccontata da Zosimo ( 820 – 890). Reputo questi  due autori, sufficientemente informati, sui fatti che riguardavanola storia della loro patria. Perciò, tutta la cronaca messinese, risulta infondata: direbbe un potenziale commentatore? Non del tutto. Il motto, che ai più, sembra quasi un orpello, è il vero titolo distintivo a cui, si rifanno i meriti di Messina. Mi riferisco al valore espresso dal motto: Gran Mirci a Messina. A concederlo non fu Arcadio, ma bensì Verre. Troviamo questo motto in forza delle insegne, che il noto Cicerone, avvocato romano, elargì alla Città dello Stretto, quando innanzi al Senato di Roma accusava Verre di numerose nefandezze; non ultime, dagli onori scelti per Messina, siglando ciò con l’epiteto: Altior dignitatis gradus. La cosa non è sfuggita a parecchi filologi, che numerosi indirizzano l’eloquenza proferita da Cicerone, a un libro di Euripide che così citava, Eur. Med. 1121: πλειστου  άξιός ovvero: il più grande merito.  Ribadito ed elevato ancora di più da Cicerone: il più alto grado della dignità. Questo titolo nel passato, era visto nella corona imperiale. Infatti, le voci come sopra, commentano il titolo che i Messinesi dell’epoca ostentavano: quello delle tre torri. Poi inserito, e recuperato dagli Svevi, nei blasoni civici per designare il valore della corona triturrita: assegnata alle armi e agli stemmi di Messina.
Cronologicamente parlando, la prima insegna che si ricordi, assegnata alle armi di Messina, è lo scudo rotondo con le tre torri, già in uso durante i governi Mamertini. Giustamente aggiungo io: gli amici di Verre, erano proprio i Mamertini. Successivamente quelle armi, vengono addossate alla città, con il titolo di Civitas Regalis: meglio detta “Città Imperiale.” La fonte che conferma tale titolo, viene fuori, da un libro scritto da Rufino D’Aquilea: mi riferisco alla terza ricognizione delle Epistole Clementire, vergate da questo autore a Messina l’anno del Signore 409: dove segnalava già allora, che i Messinesi, venerassero sotto le insegne della protezione la  Madonna che, proteggeva  il suo  porto e la città. Qualche anno dopo nel 414, il Palladio, segnalava Messina come Città Imperiale. Ancora, al tempo dei fatti dell’intronazione di Eufemio come Rex di Sicilia 827, si segnalava Messina Città Imperiale.  Si ricorda che al tempo della dominazione Araba, Messina innalzasse sui labari civici, l’emblema di una torre nera in campo verde. Questo era l’emblema del governatore al Hassad ibn Hammar quando, dopo che vinse l’Ammiraglio Bizantino Foca, davanti le acque di Reggio Calabria  nel 963, addossò quelle insegne al Palazzo del Governo, posto presso la Città dello Stretto. Così il Malaterra, ricordava gli spalti di Messina, sotto lo stemma della torre nera in campo verde. Mentre, successivamente, con l’avvento dei Normanni quelle insegne mutarono.  Un documento che tratta, il privilegio della emissione di tarì d’oro per volontà dello Svevo Enrico VI, viene confermato, dai fondi dell’Archivio Storico di Brindisi. Infatti, si nota nell’emissione di quei tarì (1197 – 1209) che nelle facce del soldo comparivano, i due emblemi di Messina: un’aquila bicipite e una croce latina attorniata ai 4 angoli da 4 globetti. La stessa croce sarà innalzata da Aldighiero Alighieri, quando anche Messina costituì la Repubblica Marinara (1252 – 1256). Dove le cronache dell’epoca, segnalavano lo stendardo portato da Messina: una croce bianca guarnita di rosso in campo bianco. Così come si può ancora oggi notare, dipinta su una delle due sezioni di travi lignee, provenienti  dalla Cattedrale di Messina datate 1254, oggi  esposte nella seconda sala del nostro Museo. La croce della Repubblica Marinara messinese, sarà utilizzata ancora durante la guerra del Vespro 1282.
Michele Amari la segnala, nella sua cronaca, osservando come i Messinesi e i Palermitani, esponessero le rispettive insegne civiche con sommo onore alle genti di Sicilia. Questo blasone, faceva parte dei simboli distintivi della Giurazia Cittadina. Che ben si distingueva da quella imperiale: aquila nera bicipite in campo bianco. La bandiera imperiale dell’aquila bicipite, era il simbolo che la città esponeva sulle proprie galee. Oggi potremmo dire che la bandiera marinara Sveva, rappresentasse gli interessi economici del sovrano, attraverso i Messinesi, nei porti e nelle città dell’impero. Nicolo Speciale, un cronista messinese del XIII secolo, ribadiva la presenza della insegna della croce in favore di Messina. L’aquila bicipite invece, emessa da Enrico VI Imperatore, viene segnalata ancora in auge al tempo di Manfredi 1253, addossandola e concedendola a tutta la Sicilia. Al tempo di Federico III d’Aragona 1296 veniva riconosciuto a Messina, il privilegio dello Stemma Imperiale espressione degli interessi Messinesi in favore del loro Porto Franco. Dopo l’incoronazione del sovrano Aragonese in quel di Palermo, giunto che a Messina,  seppe che la città di Reggio fedele alla Sicilia, adottava le insegne di Messina per sommo onore: aquila nera bicipite in campo bianco. Così, se da un verso, i due emblemi sopravvivevano nei labari della Città dello Stretto, grazie a Federico II di Svevia, la città di Messina, recuperò anche l’antico glorioso stemma imperiale. Quando fu emesso il privilegio del sigillo d’oro, oggi conservato nei fondi bibliotecari dell’Università di Bamberg: sigillo d’oro con globo centrale  e le tre torri. Messina, baricentro commerciale dei traffici siciliani e dell’impero con il Medio Oriente e con l’Asia, poteva esprimere nell’antico glorioso titolo di Città Imperiale, i suoi antichi splendori. L’antico   Gran   Mirci   della   Città   Imperiale,  riviveva  adesso nell’anno  1246.  Le insegne come sopra accenno, quelle presunte di Arcadio:       “  croce d’oro in campo rosso “ vengono in parte segnalate, al tempo della costituzione del Consolato del Mare 1519. Verosimilmente, quella sarà la data di  riferimento sbagliando, dalla quale, ancora oggi si ricorda essere,  privilegio del  Romano Impero.

Alessandro Fumia